Da qualche tempo mi tormenta un’immagine ben poco suggestiva, ma surrealmente nitida nei miei pensieri. Forse ricordi.
È la mia immagine: giovane, poco più che una bambina, i capelli così scuri mi scorrono sulla schiena e sui seni come fiumi in piena, sono capelli che nascondono molto, le orecchie, la fronte, il collo, e sono davvero capelli di bambina, profumano, profumano come i neonati nell’ovatta delle loro culle, innocenti e ignari, acerbi. Profumano in modo sfacciato: non se ne preoccupano.
Ho la pelle sempre chiara.
Sotto il sole sento che potrei morire, come se avessi aculei sottili infilati lungo tutto il mio corpo.
Sono spolverata di nei, ho un neo sul collo che mi piace tanto, nonostante tutto; magari un giorno di questi scosto i capelli.
So dove sono: è un cortile assolato, un’austera villa di campagna. Mi sono rannicchiata sotto la tettoia spiovente per succhiare via al primo pomeriggio le poche gocce d’ombra che ha da darmi, l’aroma spesso e persistente della salsedine mi si appiccica alle narici insieme ad altri odori intimi e familiari, mandarini, finocchio selvatico, olio che si scalda, sapone fatto in casa.
Sono seduta sul mio trono di plastica blu e vecchia, le gambe si appiccicano alla sedia, ho lasciato perdere tutta la follia delirante dei tumulti familiari per godermi lo spettacolo pomeridiano che mi offre il cortile della casa: è una vasca piena di luce, fa quasi male guardarlo, il pavimento è di terracotta e di schegge di marmo, mi acceca, il muretto in piastrelle di ceramica bianca mi acceca, tutto è rovente, sembra liquefarsi.
Non si può toccare nulla, il mare è lontano, sconfinato, freddo e buio.
Le piante si protendono per toccarmi, i rami si dilungano nello spazio infinito del pomeriggio, nel suo tedio, fino toccarmi davvero. Le viole mi sfiorano le caviglie. L’edera e i fiori si arrampicano sul muro, il verde delle foglie è così violento e vicino che sembra quasi sia sul punto di aggredirmi, i gerani sono tanto rossi da sanguinare nelle mie mani, come quando raccoglievo le more dai rovi, il sangue si mescolava al colore delle more, il sangue era un piccolo prezzo da pagare per conquistare il cuore di mia madre.
I miei capelli non profumano per le sue carezze.
Tutto il cortile è così luminoso. Due libellule lottano nel sole, chissà dove vanno a morire d’inverno, senza tutto questo bianco, senza i colori violenti, senza di me, che non posso guardarle. Le api si raccontano gli ultimi pettegolezzi nell’orto, le mosche soggiornano sul cactus pigramente. Un lucertola si è assopita su un vaso infiammato dal sole, attende.
La vista mi confonde, la calura estiva mi toglie il fiato e la calma, mi smuove. Com’è vivo questo posto! Respira. Lo posso sentire, lo percepisco dal silenzio in cui galleggia: o forse è solo una cicala, o un gatto o un cane randagio, forse è il mio respiro.
Mi piace che si confonda con il respiro intenso di questo luogo. Mi piace sapere che oltre l’edera e la melagrana e i gerani e le more c’è la sterpaglia, la gramigna, la strada scoscesa di asfalto purissimo, gli alberi, il fosso, mai acqua, mai un rivolo d’acqua.
Mi piace godere sia dell’illusione di un’oasi sia della certezza del deserto.
Ma sono lontana, il mio corpo informe e bianco è qui, è nel vestito di cotone leggero, sente tutto, la cicala, i capelli sulla schiena, il sapore di una mora, il silenzio oltre i fogli di luce del cortile, il pianto sconsolato del cactus e il grido dei gerani. Il mio cuore non si sente a casa: tutto quel piacevole sentire si ritorce contro di me, e io sogno la fontana di marmo rotta e vuota ed erosa, la casa abbandonata e sterile, il bicchiere scheggiato, la nuda roccia e l’ombra ariosa e materna di un ulivo dal tronco cavo, dove mi assopivo piano, dove parlavo a tu per tu con la mia solitudine del profumo dei miei capelli e dell’illusione della bellezza, dell’inganno dei sensi.
E sognavo d’essere Ofelia, trascinata dalla corrente.
all pictures by Dara Scully.