Ai Giardini Margherita

un racconto di Filippo Avigo,
editing di Alessandro Tesetti.

Non sono così ingenuo da pensare che la terza guerra mondiale ci possa salvare, ma ormai pare davvero l’unica speranza rimasta. Un fungo atomico tra via Murri e porta Castiglione potrebbe dissuadere un po’ di gente dall’andare in giro con i propri cagnetti infagottati in borse e marsupi come se fossero neonati; o al guinzaglio, con tanto di cappottino e babbucce perché non s’infreddino le zampe. Lo so che l’efficacia sarebbe tutta da dimostrare, eppure mi consola pensare che un’esplosione nucleare potrebbe spingere qualcuno a smettere di intiepidirsi le dita tutti i giorni, mattina e sera, raccogliendo escrementi di ogni foggia in sacchetti semitrasparenti.

È evidente che abbiamo esagerato, che meritiamo una catastrofe planetaria. Al massimo si potrebbe salvare qualche decina di eletti dichiaratamente non cinofili, sempre che si riescano a trovare. Se dovessero saltare fuori, comunque, non sarebbe di sicuro ai Giardini Margherita, dove farsi bullizzare dai chihuahua è diventata la norma. Una volta consideravo un privilegio abitare a ridosso di uno dei parchi più belli di Bologna, ma con il passare del tempo mi sono ricreduto. La storia è sempre la stessa: attraverso via dei Sabbioni e mi ritrovo in mezzo a una distesa d’auto da cui non è detto si riesca a uscire. E questo già stride perché Sambuy – o come caspita si chiamava l’ingegnere che ha disegnato il progetto centocinquant’anni fa – di certo non pensava che sarebbe venuto fuori un troiaio simile, che quando va bene sembra di trovarsi in mezzo al parcheggio Tanari. Ma alla fine basterebbero un paio di carri armati per ridurre in un ammasso di lamiere le utilitarie dei visitatori della domenica e i SUV che si affollano davanti al circolo del tennis. Il problema davvero irrisolvibile sono i cani viziati che trovo appena finisce la colonna di auto, quelli accompagnati da bipedi il cui più gradito passatempo è raccogliere gli stronzi che le loro creature lasciano per strada e io riesco a non pestare.

Mi piacerebbe riuscire a convincere quelle creature a tornare a casa sulle loro zampine e rimanerci il più a lungo possibile, proprio come faccio io tutti i giorni senza nemmeno emettere un guaito. Invece non c’è verso che si schiodino dalle aiuole rinsecchite che costeggiano il laghetto.

Temo che, con loro, dei semplici carri armati farebbero ben poco.

Però, carri armati o no, in qualche modo devo pur resistere, mica posso arrendermi senza lottare. E allora oggi che la giornata è tiepida e soleggiata, la prima vera giornata di primavera di quest’anno forse ancora più balordo di tutti quelli che lo hanno preceduto, mi ci metto d’impegno per sfidare la cagnara. A metà mattinata spingo il naso fuori casa e scendo le scale guardingo. Dopo pochi passi sono ai giardini, deciso a non imbufalirmi per le auto imbottigliate sul viale d’accesso. Cammino verso il laghetto sotto l’ombra dei tigli, schivando animali a due e quattro zampe come se fosse lo sport più divertente del mondo. Mi capitano a tiro anche due levrieri afgani e un bracco di Weimer, razze che quando arrivai a Bologna trent’anni fa neppure esistevano. O meglio, se esistevano avevano il buon gusto di starsene a casa loro, in Afghanistan e Turingia, presumo. All’epoca ai giardini si vedeva al massimo qualche pastore tedesco male in arnese, o degli incroci sgraziati con cui non si andava d’accordo perché ci contendevano l’acqua delle poche fontane funzionanti.

Arrivo al baretto con la testa piena di ricordi. Sono squallidi, ma al cospetto di un presente senza speranza fanno tenerezza. Per questo mi viene da sorridere, mentre mi siedo al tavolino più appartato e ordino un caffè.

«Visto che tempo? Sembra già estate!» Il cameriere reagisce al mio sorriso senza speranza cercando di imbastire uno straccio di conversazione. Io rispondo «Vero» con le palpebre abbassate, per evitare il fastidio del sole e continuare a pensare ai cavoli miei. Ma l’isolamento dura meno di un istante, una voce femminile mi riporta in fretta alla realtà.

«Vero cosa?» dice, e io, che ho il difetto di non riuscire a essere maleducato nemmeno quando voglio, apro gli occhi e mi giro un po’ di lato per guardare nella direzione da cui è arrivata la domanda. Nonostante il sole accecante intuisco in controluce le figura flessuosa di Maria Carla, la mia vicina del secondo piano.

«Già sveglia?» provo a scherzare, per non sembrare più misantropo di quello che sono. E poi un minimo di curiosità mi è venuta, è normale che glielo chieda, prima d’ora non mi era mai capitato di vederla in giro la mattina.

«Proprio sveglia no» dice. «Anzi, se insisti un caffè lo prendo volentieri». Si avvicina come se lo avessi già ordinato e si siede infilando le gambe – lunghissime e senza calze – sotto al tavolino. A me la cosa in fondo non fa schifo, chiacchierare con la più gnocca del condominio ha il suo perché e i soldi del caffè li investo volentieri. È pure simpatica, il suo appartamento è l’unico di tutto il palazzo, a parte il mio, dal quale non arriva mai neppure un guaito.

«Ne ho un gran bisogno» aggiunge. «Devo essere in centro alle undici. Non so come ho fatto ad accettare un orario così assurdo, di sabato per giunta. Senza un caffè mi sa che non ci arrivo.»

Pare strano, con le gambe chilometriche che si ritrova, ma mica glielo dico. Non voglio nemmeno passare per taccagno, quindi mi sbrigo a ordinare il suo caffè.

«Non capisco chi e come sia riuscito a farti alzare così presto» la stuzzico soltanto, dopo che il cameriere le ha appoggiato la tazzina sotto il naso.

«Lascia stare, sembra impossibile anche a me. Sono così emozionata» dice lei, facendo un gran sospiro. Fino a un attimo fa mi illudevo che mi stesse abbordando, ora mi viene invece il dubbio che abbia trovato l’uomo giusto, ma che con me non c’entri niente.

«Mi sono presa una vera cotta. Sono completamente innamorata».

Ecco, non mi sbagliavo. Peccato lo dica così, senza pudore.

«È dell’ultima cucciolata della Sally, la cagnolina di Cinzia» dice poi a bruciapelo, accorgendosi forse del malinteso. «Lei era disponibile solo stamattina. Dopo deve scappare e chissà quando torna. Rischiavo che lo lasciasse a qualcun altro e proprio non mi andava. È dolcissimo, giuro. Se aspetto ancora a coccolarlo finisce che vado giù di testa. Non vedo l’ora di stroppicciarmelo un po’». 

«In che senso?» chiedo con tono lugubre, mentre la saliva mi si secca sulla lingua. «Vuoi dire che ti prendi un cane?»

«Caspita, detto così sembra un delitto!» esclama ridendo. «La metterei in modo meno brutale: ho il privilegio di essere stata scelta da Cinzia tra i pochi che potranno ricevere in dono uno dei meravigliosi cuccioli della sua cagnolina. E la cosa mi rende felice e pure orgogliosa».

«Ma a te i cani non piacciono, non ne hai mai avuti» protesto, senza energia.

«Che c’entra. Non ne ho avuti, mica vuol dire che non mi piacciono».

È come se l’auspicato conflitto atomico mi scoppiasse nello stomaco, però lei non se ne accorge. Anzi, mi strizza l’occhio con aria complice e, per far percepire meglio l’urgenza, tracanna il caffè e se ne va dicendo: «Mi spiace, devo proprio scappare. Grazie ancora per il caffè».

Si incammina senza mai voltarsi indietro, come se la mia prostrazione neppure la scalfisse. In un attimo è in via Castiglione.

Trascorro mezzo pomeriggio ragionando sulla disavventura mattutina, spappolato sul divano come se avessi passeggiato su una mina antiuomo. È chiaro che una guerra nucleare potrebbe non bastare, se anche la mia vicina si è ridotta così. Però forse risolverebbe il problema dei rompiscatole che suonano e bussano al mio appartamento con enfasi eccessiva, penso mentre mi alzo a fatica per andare ad aprire.

«Iniziavo a preoccuparmi, perché non rispondevi? Tra un attimo avrei chiamato i carabinieri». Maria Carla ride e intanto sbircia dentro casa, muovendo un passo in avanti per far capire che gradirebbe entrare. Io oppongo resistenza, ho un brutto presentimento.

«Addirittura» ribatto, cercando di darmi un contegno. «Non hai pensato che potessi essere fuori?»

«Certo, il sabato pomeriggio!» esclama lei, ridendo più forte. «Con il casino che c’è… Guarda che un po’ ti conosco». Si diverte così tanto che mi viene la nausea.

«Scusa, è solo che non avevo sentito» provo a chiudere il discorso.

«E non stare a dirmi che i cani non ti piacciono. Non sono mai stata una fanatica nemmeno io, lo sai. Ma Arturo è diverso».

Lo sconforto mi fa abbandonare il braccio che tenevo appoggiato allo stipite. Maria Carla ne approfitta per sgusciare in casa e ficcarmi sotto il naso la palla di pelo che si toglie da una tasca della giacca.

«Maria Carla» bisbiglio, mentre è già in salotto. Richiudo la porta e la seguo con le orecchie basse. Lei posa la borsa e si accovaccia sul tappeto, poi deposita la palla pelosa davanti a sé e le fa gli occhi dolci.

«Amore» sussurra, accucciandosi di più. Ha ancora la gonna cortissima che indossava questa mattina, la cosa mi provoca un lieve turbamento.

«Posso offrirti un caffè?» Non sono per niente originale, ma mi preme cambiare discorso.

«Volentieri» dice lei. «Oggi non faccio altro che bere caffè. Pensa che non ho neanche pranzato. Mi si è proprio bloccato lo stomaco, peggio di quando ci si innamora». Si gira e mi sorride come se avesse fatto una battuta. Poi torna a rivolgersi al cucciolo che si sposta circospetto sul tappeto, dandogli un’affettuosa pacca sul sedere.

«Avevi mai visto un carlino così delizioso? Dì la verità» chiede ancora, invitandomi a guardare l’animale da vicino.

«No davvero» rispondo, mogio.

Lo solleva con delicatezza e porta il suo muso schiacciato a un paio di dita dal mio naso. Storco la bocca e mi allontano con la scusa del caffè.

«Peccato che stasera non posso portarlo con me» dice, mentre sono in cucina alle prese con la moka. Mi viene il dubbio di non aver capito. «Sono a cena da amici, a Modena» aggiunge. «Tornerò tardi».

A Modena? E perché mai uno dovrebbe avere degli amici a Modena?     

«Sempre che non debba fermarmi a dormire.»

Possibile, se qualcuno la prega di restare.

«Povero Arturo, potrebbe sentirsi solo» cerco di stuzzicarla, finché sono ancora in cucina e non può vedere il mio ghigno.

«Vero. E io non mi perdonerei di farlo stare male già la prima sera» dice mentre torno in salotto. «Forse dovrei portarlo con me».

«Così piccolo?» Mi scandalizzo come se fossi un amante degli animali. «Quanto hai detto che ha?»

Non l’ha detto, lo chiedo giusto per sottolineare che è una pessima madre adottiva.

«Non ha ancora tre mesi. E i carlini soffrono un sacco la solitudine».

Il caffè sale, torno in cucina e dopo un attimo sono di nuovo in soggiorno con le tazzine e la zuccheriera.

«No, dai, non posso portarlo. Con quella confusione si spaventerebbe». Maria Carla scuote il capo rassegnata. «Anche se stamattina gli ho preso un marsupietto che è una delizia, penso ci starebbe comodo». 

Un sorriso pieno di tenerezza le increspa le labbra, mentre tira fuori dalla borsa un attrezzo di stoffa verde salvia che si butta a tracolla.

«Amore» dice ancora, accovacciandosi per prendere Arturo e depositarlo nella tasca che le si apre sul seno. Lui oppone qualche resistenza ma poi si rassegna al suo morbido rifugio, io mi siedo sul divano e verso un cucchiaino di zucchero nella mia tazzina. Maria Carla mi guarda da molto vicino e a me sembra opportuno posare la tazzina sul tavolino, perché le mani un po’ mi tremano e non vorrei farla cadere. Poi lascio che il cuore inizi a pomparmi sangue dove ritiene opportuno. Lei mi si siede accanto, sfiorandomi la coscia con la sua, senza nemmeno tentare di calmare il marsupio che, di tanto in tanto, riprende a dimenarsi sulle sue tette.

«Per fortuna posso contare su di te» dice poi, appoggiandomi una mano sul ginocchio. «Arturo ha solo bisogno di qualcosa da mangiare. In ogni caso puoi dormire a casa mia, se faccio tardi.  Ti lascio le chiavi».

Se fai tardi o proprio non torni, mi viene da pensare. Una botta di tristezza smorza all’improvviso l’eccitazione.

«Ti aspetto alle sette» dice, mentre mi appoggia un bacio sulla guancia. Un attimo dopo è alla porta, non sono neppure riuscito a salutarla.

Alle sette in punto busso a casa di Maria Carla, con lo spazzolino da denti in mano e, sulle spalle, il peso di un destino che temo ineluttabile. Lei mi accoglie con un sorriso, avvolta in un elegante abito lungo, profumatissima e già pronta per uscire.

«Se hai fame prendi dal frigo quello che vuoi. E sul tavolino c’è il telecomando della TV» dice, mentre mi fa vedere dove tiene il cibo per il cucciolo. La scorta che è riuscita a fare in mezza giornata sarebbe sufficiente per una famiglia di rottweiler, ma si fa apprezzare soprattutto per l’ordine con cui è sistemata: le scatolette sono tutte impilate in file regolari, dal secco all’umido passando per il semi-umido; un’intera sezione di croccantini senza carne è esposta in bella vista sul primo piano della dispensa, per non perdere tempo a cercare nel caso in cui la bestiola manifestasse tendenze vegane. Sto ancora ammirando la composizione, quando mi accorgo che Maria Carla ha indossato una mantella scura e sta aprendo l’armadio a muro che separa la zona giorno dall’ingresso. Indica con un sorriso una borsa e il famigerato marsupio.

«Nella borsa c’è il guinzaglio con i sacchetti. E anche il cappottino, se dovesse avere freddo. Meglio portarlo mezz’ora ai giardini, prima della nanna».

Mentre la accompagno alla porta riesco a malapena a deglutire. Arturo mi lecca i piedi prima ancora che Maria Carla inizi a scendere le scale. Poi mi fa due giri intorno e alza il muso schiacciato per guardarmi con i suoi occhi tristi. Chiudo la porta e torno in soggiorno. Mi lascio cadere su una poltrona, il botolo si accuccia sotto di me gemendo.      Accendo la TV e faccio zapping con l’audio al minimo. In un programma il presentatore sbarra gli occhi e propina ai concorrenti domande imbarazzanti, in un altro tutti assaggiano i piatti di tutti. Cambio ancora canale e trovo un TG. C’è qualche fermento in Ucraina e a Gaza. Nulla di sconvolgente, le solite guerre combattute come cento anni fa. Troppo primitive. E troppo lontane da Bologna.

Spengo la TV e mi trascino fino all’armadio a muro. Il tempo di recuperare marsupio e cappottino e Arturo è davanti alla porta. Sta raspando con le zampe, non vede l’ora di uscire.

tutte le fotografie di Pasquale Fanelli.

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